La Bellezza e l'inferno by Roberto Saviano

La Bellezza e l'inferno by Roberto Saviano

autore:Roberto Saviano [Saviano, Roberto]
La lingua: ita
Format: epub, mobi
pubblicato: 2011-12-15T08:47:06+00:00


Roberto Saviano

Può sembrare paradossale, ma in fondo se io avessi scritto un saggio, o se avessi scritto un romanzo, e non avessi deciso di far confluire in un unico letto questi due fiumi, sicuramente sarei stato ignorato dal loro potere, dalla loro voglia vendicativa.

Perché del saggio nel mio libro ci sono i dati, le informazioni, le intercettazioni, le inchieste; del romanzo c’è la leggibilità, il fatto di voler parlare al cuore del mio lettore, di non volerlo fare evadere, ma invaderlo. In qualche modo, la scrittura letteraria è pericolosa in quanto tale, proprio perché riesce, come si diceva, a coinvolgere ognuno nella storia che sta leggendo, e a rendere quella storia la sua storia. E anche sul piano dell’immaginazione credo che la letteratura abbia un potere in più.

Chiudo con un racconto proprio di Šalamov.

Šalamov si trovava in un gulag, e nella sua baracca avviene un’ispezione. La polizia chiede di consegnare tutta una serie di cose esterne al proprio corpo: gli arti artificiali, le dentiere, tutte le protesi. E allora fra questi prigionieri c’è chi si toglie la dentiera, chi si leva l’occhio di vetro, chi si smonta la gamba. Ma Varlam Šalamov è molto giovane, è sano, e quindi la polizia scherzando dice: «Tu cosa ci consegni?». E

lui fermo: «Niente». Allora dice la polizia: «Tu ci consegni l’anima».

Šalamov risponde così, d’istinto: «No, io l’anima non ve la consegno». Al che quelli continuano: «Un mese di punizione se non ce la consegni».

«No, non ve la consegno.»

«Due mesi di punizione se non ce la consegni.»

«Io l’anima non ve la do.»

«Quattro mesi di punizione» che nei Gulag significa quasi la morte certa. «L’anima non ve la do.»

Dopo i quattro mesi di punizione, Šalamov sopravvive e scriverà: “Io per tutta la vita non avevo mai creduto di avere l’anima”.

Il demone e la vita

Sembra ancora di vederlo rinchiuso nel suo sgabuzzino letterario a vidimare pagine di racconti e demoni, di geometrie razionali stravolte dal dettaglio imprevedibile della più innocua forma di vita. Isaac Bashevis Singer avrebbe compiuto cent’anni nel luglio 2004, assomigliando così a un vetusto personaggio dell’Antico Testamento, uno dei suoi adorati, incapaci nonostante secoli di vita di comprendere il senso del vivere e di appagarsi di una pur parziale o minima verità ultima. Singer però, piuttosto che in un profeta, sempre più negli ultimi anni sembrò trasformarsi fisicamente in uno dei suoi piccoli demoni benevoli e terribili. Orecchie a punta, sorriso mefistofelico, testa glabra, occhietti vispi e tondi.

Una sua collaboratrice arrivò a dichiarare in un’intervista che non aveva mai visto l’ombra dello scrittore e che era certa si trattasse di un demone letterario. Nonostante il carattere delirante dell’affermazione, per Singer non vi fu mai complimento migliore di quello. Isaac Bashevis Singer nella sua vita ha costruito un’opera narrativa oceanica scritta in una lingua scomparsa, o meglio sterminata, lo yiddish.

Una sintassi impastata di ebraico, polacco, tedesco, capace di accedere a sonorità complesse, a significati ibridi, la lingua dell’esilio composta dai fonemi della diaspora. Theodor Herzl, fondatore del pensiero sionista, immaginava una terra d’Israele dove



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